Fare una famiglia non tradizionale in Italia

Per le coppie non eterosessuali avere figli significa spesso dover andare all’estero, e poi andare incontro a grosse preoccupazioni legali

di Alessandra Pellegrini De Luca

Una donna con due gemelli avuti insieme alla compagna, negli Stati Uniti (Chip Somodevilla/Getty Images)
Una donna con due gemelli avuti insieme alla compagna, negli Stati Uniti (Chip Somodevilla/Getty Images)
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In Italia, il paese in cui viene spesso sottolineata l’importanza e la centralità della famiglia, per chiunque non sia una coppia eterosessuale costruirne una può essere estremamente complicato. Alle coppie omosessuali e ai single è vietato il ricorso alle tecniche di procreazione assistita, che permettono di fare figli a chi non riesce ad averli in modo naturale. Per poter fare un figlio, le coppie omosessuali e i single italiani devono andare all’estero, con percorsi lunghi e molto costosi, oppure trovare altre strade, magari informali e non sempre sicure.

Per i genitori omosessuali le difficoltà continuano anche dopo la nascita dei figli, col mancato riconoscimento del legame di parentela tra il bambino e il genitore non biologico. Sono discriminazioni che non sembra ci sia la volontà di rimuovere, benché anni di studi abbiano ormai assodato che il benessere dei bambini non dipende dalla struttura della famiglia ma dalla qualità dei rapporti al suo interno.

La legge di riferimento
In Italia la legge di riferimento per la fecondazione assistita è la legge 40 del 2004, approvata durante il secondo governo Berlusconi, tra le più restrittive d’Europa e ampiamente criticata, da anni, per i vari divieti che contiene. Tra questi, c’è quello sull’accesso alle tecniche di fecondazione assistita per i single, le coppie dello stesso sesso, le vedove e quello sulla gestazione per altri (spesso chiamata “maternità surrogata”): per chi vìola le regole sono previste multe di centinaia di migliaia di euro o la reclusione fino a due anni.

Concretamente, dice Micaela Ghisleni, autrice per Einaudi del saggio Generazione Arcobaleno, insieme al divieto di adozione, per i single e le coppie omosessuali la legge italiana semplicemente «non prevede che si possa diventare genitori».

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Le famiglie non tradizionali in Italia
È difficile avere dati precisi su quanti siano, in Italia, i nuclei familiari non tradizionali. Lo stesso concetto di “famiglia tradizionale” è molto difficilmente definibile: la studiosa britannica Sophie Zadeh, che si occupa di famiglie non tradizionali alla University College London di Londra, l’ha chiamato «una costruzione sociale, un mito».

Un primissimo dato di partenza, comunque, è il numero di iscritti all’associazione Famiglie Arcobaleno, l’associazione di riferimento per i genitori LGBT+ in Italia, nata 17 anni fa: circa 2.500 persone, dice Simona Nicosia, consigliera dell’associazione. È un dato considerato in crescita e comunque molto parziale, poiché non include per esempio molti genitori single che non fanno necessariamente parte della comunità LGBT+, oltre al fatto che ovviamente non tutte le famiglie composte da due mamme e due papà o con un solo genitore LGBT+ sono iscritte all’associazione.

Per avere figli, molte di queste persone, quelle che ne hanno la possibilità, vanno in cliniche private estere. Per le donne significa andare nei vari paesi europei che permettono anche alle coppie di donne o alle donne single l’accesso alle tecniche di PMA, la procreazione medicalmente assistita, in questo caso di tipo eterologo, quindi tramite la donazione di sperma (o, se necessario, anche di ovuli).

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Storie di mamme
Tra le donne ascoltate dal Post, le destinazioni più comuni sono state la Spagna o la Danimarca: «Le donne italiane che si rivolgono alle nostre cliniche spagnole sono tantissime: fino a pochi anni fa erano circa il 10 per cento di tutte le nostre pazienti in Spagna, ed è un dato che consideriamo in aumento», dice Cristina Pozzobon, direttrice della sede milanese della rete di cliniche IVI, che ha circa 70 sedi in tutto il mondo, molte delle quali proprio in Spagna.

I motivi che spingono a scegliere un luogo o un altro sono vari. Spesso sono linguistici: il ricorso a cliniche estere è talmente frequente che alcune cliniche hanno direttamente siti in italiano e staff italofono. Altre volte si sceglie un paese semplicemente perché si conosce qualcuno che ci si è trovato bene. Altre volte ancora il criterio è la gestione delle informazioni relative ai donatori: in Spagna, per esempio, il donatore è anonimo, mentre in Danimarca può scegliere se restare anonimo o rendersi reperibile dopo i 18 anni di età della persona nata grazie alla sua donazione.

«Uno dei primi problemi per noi è stata la mancanza di informazioni: ci si arriva tramite conoscenze, passaparola, facendo ricerche su internet, o incontrando medici disponibili a consigliarti cosa fare», dice Emanuela, che con la moglie Irene ha una bambina, Ada. Da questo punto di vista è molto importante il lavoro delle associazioni. Simona Nicosia di Famiglie Arcobaleno dice: «Non siamo un’agenzia di servizi, il nostro ruolo non è dare informazioni su come aggirare la legge ma fare in modo che cambi. Il nostro, però, è comunque uno spazio di confronto e riflessione, in cui ascoltare storie simili a quelle vissute in prima persona, arrivare il più possibile preparati alle scelte da fare e alle difficoltà da affrontare».

Una volta stabilito il contatto con la clinica estera, si fa un primo colloquio al termine del quale di solito si riceve una lista piuttosto lunga di esami da fare, per poi scegliere il tipo di trattamento: anche da questo punto di vista ci sono esperienze molto diverse. Si va dalla tecnica più semplice, la IUI, inseminazione intrauterina, cioè il deposito di liquido seminale nella cavità uterina, a percorsi più complessi. A volte sono dettati dalle condizioni di salute o dall’età della donna – può essere necessaria una stimolazione per moltiplicare gli ovuli, oppure il ricorso alla fecondazione in vitro – altre volte da scelte personali.

Giada e Serena, per esempio, che hanno tre figli, hanno fatto ricorso alla cosiddetta ROPA. Semplificando molto, un ovulo di Giada, fecondato col seme di un donatore esterno, è stato poi trasferito nell’utero di Serena, che ha partorito due gemelli legati, quindi, a entrambe le mamme (in un caso geneticamente, nell’altro biologicamente): «Io non avevo necessariamente bisogno di un legame genetico per sentirmi madre, ma per Serena era importante, e così abbiamo optato per questa possibilità», dice Giada.

Per le coppie di donne o per le donne single italiane che decidono di fare un figlio, il primo problema si pone già in questa fase, col difficile accesso ai farmaci per la stimolazione ovarica: sono farmaci richiesti in moltissimi casi, spesso anche per i trattamenti più semplici come la IUI. Ma soprattutto sono farmaci costosi, da svariate centinaia di euro a somministrazione. Per le coppie eterosessuali sono in grandissima parte prescrivibili a carico del Servizio sanitario nazionale: non è così per le coppie di donne e le donne single, che per il semplice fatto di non essere legate a un uomo, e dunque di non rientrare tra i soggetti ammessi alla PMA dalla legge 40, devono pagarli interamente di tasca loro. 

Esistono forme di disobbedienza da parte di chi ritiene questi divieti ingiusti, imposti su esigenze e desideri da considerarsi legittimi.

Un medico contattato dal Post ha raccontato che ci sono medici che scelgono, con una valutazione individuale, di estendere il concetto di infertilità [la cui definizione è, anche per queste ragioni, al centro di dibattiti, ndr] alle coppie di donne o alle donne single, dato che non possono avere figli senza assistenza medica, e di prescrivere loro i farmaci anche se non potrebbero. Per il medico è un rischio: se si sapesse, dice, dovrebbe ripagare quegli stessi farmaci di tasca sua. D’altra parte, spiega, il medico deve fare «quello che ritiene sia più giusto» per il paziente, e «nella discrepanza tra giusto e legale qualche volta sceglierà il giusto», anche se sa che c’è un’irregolarità di fondo.

Il problema dei costi si ripropone soprattutto col viaggio all’estero. Per alcune donne ne basta uno, in concomitanza dell’inseminazione: può essere un viaggio di 24 ore, o di qualche giorno. Per qualcuno è stata anche una bella esperienza: il giorno dell’inseminazione da cui poi è nata la loro figlia Ada, Emanuela e Irene avevano affittato una casa sul mare, a Barcellona; Giulia Gaetti, che aveva iniziato il percorso da mamma single per poi incontrare la sua attuale compagna, aveva fatto un giro in bicicletta per Copenaghen, restando per un po’ davanti alla Sirenetta, a immaginare come sarebbe stato crescere sua figlia; Emanuela Schiaffino e Desirè, mamme di Diana Artemisia e in attesa del loro secondo figlio, raccontano di aver camminato per le strade di Barcellona tenendosi per mano, abbandonando le cautele e la riservatezza che di solito, anche solo per evitare uno sguardo in più, adottano in Italia.

Ma c’è anche chi non può permettersi di andare all’estero, o di tornare una seconda volta se il primo tentativo fallisce, come spessissimo accade. «Il fatto stesso di dover andare all’estero crea una grossa discrepanza economica, che nei fatti preclude il progetto genitoriale a tantissime persone», dice Valeria Roberti del Centro Risorse LGBTI, che nel 2017, in collaborazione con le due associazioni Famiglie Arcobaleno e Rete Genitori Rainbow e il sostegno di ILGA-Europe, aveva realizzato il progetto “Contiamoci!”, dedicato a mappare le famiglie LGBT+ italiane e a studiare le loro condizioni. 

Per una donna o una coppia di donne, tenendo conto di tutto – visite, farmaci, costo del trattamento (che è estremamente variabile), viaggi – fare un figlio comporta una spesa che può andare dai 2.500 agli oltre 10mila euro.

Per questo c’è anche chi sceglie strade più informali: fino al 2018 in Danimarca, per esempio, era possibile comprare lo sperma sul sito delle banche del seme e farselo spedire a casa, per poi «scongelarlo a bagnomaria e iniettarlo con cateteri per l’inseminazione artificiale», racconta il medico contattato dal Post. Ma ci sono anche vari siti online o gruppi Facebook per trovare donatori del seme: in moltissimi casi a proporsi come donatori sono uomini che cercano rapporti sessuali, in pochissimi altri persone che consegnano il proprio seme in provette sterili, dandosi un appuntamento con le riceventi: sono ambiti estranei a qualsiasi controllo, regolamentazione e valutazione clinica e sanitaria, potenzialmente molto rischiosi.

Nelle cliniche autorizzate a livello europeo, al contrario, i donatori di sperma vengono selezionati molto attentamente, con varie procedure di screening, visite ed esami.

Storie di papà
Per quanto riguarda gli uomini, in coppia o single, per avere figli è necessario andare nei paesi che permettono anche alle coppie omosessuali la GPA, la gestazione per altri, cioè le pratiche attraverso le quali una donna sceglie di portare avanti una gravidanza per conto di altre persone. È la pratica dispregiativamente chiamata “utero in affitto”, che proposte di legge come quella a prima firma Giorgia Meloni vorrebbero rendere reato anche se fatta all’estero. È una pratica che esiste in realtà in varie forme e con gradi di regolamentazione molto diversi e di cui usufruiscono in grandissima parte le coppie eterosessuali.

Il Post ha parlato con varie associazioni e famiglie e non ha trovato storie di uomini single che abbiano deciso di intraprendere questo percorso. Per quanto riguarda le coppie di uomini italiani, quelle ascoltate hanno scelto la California, e in tutti i casi la scelta è stata guidata dalla garanzia di un percorso che, benché più costoso, consideravano più regolamentato.

In California, racconta Marco Simon Puccioni, regista di documentari sulle famiglie omogenitoriali e padre, col marito Giampietro, di due figli, il percorso della coppia viene seguito oltre che dalla clinica anche da agenzie specializzate, che selezionano sia le donatrici di ovuli che le donne che portano avanti la gravidanza: per varie ragioni, infatti, è sempre più frequente che siano due donne diverse a donare l’ovulo e a portare avanti la gravidanza (con l’ovulo della prima fecondato con lo spermatozoo di uno dei due uomini della coppia e poi trasferito nell’utero della seconda).

Negli Stati Uniti – o quantomeno negli stati in cui la GPA è legale – le regole per la selezione delle gestanti sono piuttosto rigide: variano da Stato a Stato, ma spesso richiedono che la scelta non sia dettata dal bisogno economico e che la donna che decide di sottoporsi alla pratica abbia già figli suoi. Negli Stati Uniti la donna gestante può arrivare a ricevere dai 20mila ai 50mila dollari, una cifra che a differenza di paesi meno regolamentati non è, proporzionalmente, molto alta. In paesi come il Canada, invece, la gestazione deve essere altruistica e la gestante non può essere pagata, ma solo rimborsata per le spese sostenute e legate alla gravidanza.

Sia Francesco Zaccagnini di Famiglie Arcobaleno che Marco Simon Puccioni raccontano di aver scelto di mantenere un rapporto con la donna gestante, che frequentano e di cui i loro figli conoscono l’esistenza e il ruolo avuto nella costruzione della famiglia di cui fanno parte.

Soprattutto nel caso delle coppie di uomini, fare un figlio comporta una grossa spesa, da decine di migliaia di euro. È una questione di cui né le famiglie né le associazioni parlano volentieri, dato che viene spesso usato per criticare i loro percorsi: «Non è detto che chi li intraprende sia per forza ricco: ci sono anche persone che fanno prestiti o mutui per realizzare un progetto familiare», dice Puccioni.

– Leggi anche: Le cose false e imprecise sulla surrogazione di maternità

Genitori trans
In Italia è complicato fare figli anche per le persone trans: ci sono genitori trans che hanno avuto figli prima della transizione, ma per chi decidesse di averli dopo le cose sono più complicate. In Italia le persone che iniziano il percorso di transizione di genere hanno la possibilità di congelare i propri gameti (le cellule sessuali, ovuli o spermatozoi) per preservarli da eventuali effetti sulla fertilità dovuti alle terapie ormonali, ed eventualmente decidere di usarli in futuro. Incontrando però vari ostacoli, legati anche ai vincoli della legge 40.

Se per esempio una donna trans in una coppia omosessuale con una donna cisgender (cioè che si riconosce nel genere che corrisponde al suo sesso biologico) volesse usare il proprio sperma congelato per fecondare la compagna, non potrebbe farlo in Italia perché anagraficamente sono una coppia di donne, non ammesse alla PMA, e dovrebbero quindi andare all’estero. Allo stesso modo, una donna trans in coppia eterosessuale con un uomo cisgender – ma anche una coppia omosessuale composta da due donne trans – dovrebbe andare in un paese in cui è permessa la GPA, non essendoci all’interno della coppia chi può portare avanti la gravidanza.

Può però accedere alla PMA, ricorrendo alla fecondazione eterologa con la donazione del seme, una coppia fatta da una donna cisgender e da un uomo trans: anagraficamente sono una coppia eterosessuale, e la donna cisgender può portare avanti la gravidanza.

Diventare genitori anche per lo Stato
Per le coppie di genitori omosessuali, le difficoltà continuano anche – «soprattutto», dice Nicosia di Famiglie Arcobaleno – dopo la nascita dei figli.

In estrema sintesi: una volta tornati dall’estero, anche se nelle cliniche si è firmato insieme il consenso informato, l’unico genitore riconosciuto è quello biologico – la donna che ha partorito nella coppia di donne, l’uomo che ha donato il seme nella coppia di uomini – mentre l’altro è, per lo Stato, un estraneo. Significa, concretamente, che può aver bisogno di una delega per poter andare a prendere i suoi stessi figli a scuola, almeno fino a quando non si ottenga una qualche forma di riconoscimento, cosa può richiedere anni.

«Andiamo all’estero, in paesi in cui è legale la possibilità di realizzare il nostro desiderio di genitorialità, ma quando torniamo troviamo il vuoto legislativo», dice Micaela Ghisleni, madre insieme a Chiara Foglietta, assessora per la Transizione ecologica e digitale nel Comune di Torino, del primo bambino a cui sono state riconosciute nel certificato anagrafico di nascita entrambe le mamme, nel 2018.

La questione del riconoscimento del legame di parentela col genitore non biologico è la battaglia principale di Famiglie Arcobaleno, che la ritiene «la questione più urgente di tutte». Ed è un’altra storia, in Italia, di diritti civili in cui ai richiami della Corte costituzionale e agli inviti a legiferare non sono seguite azioni particolarmente concrete da parte del Parlamento. E in cui il vuoto normativo è stato spesso colmato da singole sentenze di tribunali, con percorsi lunghi e difficili sotto tutti i punti di vista.

A oggi, spiega Stefania Santilli, avvocata e membro del Gruppo Legale di Famiglie Arcobaleno, che si è occupato di casi di questo tipo, esistono sostanzialmente due strade per il riconoscimento del genitore non biologico.

La prima strada è «il controsenso» dell’adozione del proprio figlio: la cosiddetta stepchild adoption, il grosso compromesso della legge sulle unioni civili del 2016, a cui si arriva con una sentenza di un giudice. «Oggi, grazie a un intervento della Corte Costituzionale sulladozione in casi particolari, è un’adozione piena, che instaura cioè legami di parentela non solo col genitore adottante, ma anche con i suoi parenti», che diventeranno così nonni e zii del bambino o della bambina, spiega Santilli.

Uno dei problemi è che questa strada presuppone che entrambi i partner siano daccordo: «I tempi sono generalmente molto lunghi per ladozione, che si presta a qualsiasi scenario nel momento in cui ci sia, per esempio, una crisi di coppia e il genitore biologico decida di ostacolare il processo di riconoscimento: ipotesi che a volte si verifica», dice Santilli.

Soprattutto, alla stepchild adoption si arriva dovendo dimostrare al giudice di essere una famiglia: con pile di documenti di ogni tipo, anche fiscali. «Siamo famiglie di carta: conservi sempre tutto, i biglietti dei viaggi, le scartoffie, le bollette, per poter dimostrare che il progetto di fare figli è stato fatto insieme», dice Francesco Zaccagnini. Tra le famiglie con genitori omosessuali ascoltate, i procedimenti legali, i rapporti con gli avvocati, l’attesa delle udienze dei giudici sono un elemento comune, completamente integrato nel racconto della vita familiare.

La seconda strada è chiedere il riconoscimento direttamente allufficiale di stato civile, per ottenere un certificato di nascita che riporti i nomi di entrambe le madri o di entrambi i padri come genitori.

C’è stato un momento storico – la cosiddetta “primavera dei sindaci”, intorno al 2018 – in cui questa via era più percorribile: «Oggi lo è molto meno: dopo la pronuncia della Cassazione n.12193 del 2019 a sezioni unite [con cui non fu ritenuto trascrivibile sul certificato di nascita italiano lo status genitoriale di uno di due papà di un bambino nato all’estero tramite la GPA, ndr] molti sindaci hanno fatto marcia indietro, e anche quando ritengono di poterlo fare il riconoscimento è impugnabile», dice Santilli. I dinieghi possono essere a loro volta impugnati dalle famiglie e dai loro avvocati, per arrivare infine davanti a un giudice. Anche in questo caso con percorsi giudiziari con esiti diversi, costosi e faticosi dal punto di vista psicologico.

Quando i giudici riconoscono il legame di parentela col genitore non biologico, spiega Santilli, «prediligono il principio dell’interesse superiore del minore», valorizzando il progetto genitoriale e il legame e il rapporto di cura già esistenti tra il minore e quel genitore. Il riconoscimento da parte di un giudice è ad oggi il risultato più solido a cui si può arrivare, dice Santilli. Ma «l’unico modo per tutelare davvero, e in modo definitivo, i bambini nati dalle coppie omosessuali è avere leggi certe, che non li discriminino per l’orientamento sessuale dei loro genitori», dice Ghisleni.

Nel 2021 anche la Corte Costituzionale, con la sentenza 32, aveva definito non «più tollerabile» l’inerzia legislativa volta a colmare il grave «vuoto di tutela» per i nati da PMA praticata all’estero da coppie dello stesso sesso.

«Forse il punto di partenza, ancora prima di vedere la genitorialità come un diritto, sarebbe pensare che è un desiderio legittimo e positivo per la società: che andrebbe incoraggiato, anziché ostacolato», dice Marco Simon Puccioni.